Non mi hai permesso nemmeno di dirti ciao, o còpriti, chè avevi sempre il raffreddore e quel tossire secco e nervoso che sentivo dall'altra stanza.
Arrivavi già stanco e sulle spalle portavi il peso di due rancori familiari e sfiancati, che mai dovevano incontrarsi e che tu abbracciavi tutti i giorni, perché col tuo corpo allargassi la distanza.
Quando ti ho visto, ho avuto per la prima volta l'impressione che fossi finalmente rilassato, che non avessi più niente da sostenere, niente da giustificare, niente da spostare per far spazio alle commissioni bancarie e ai desiderata di un mondo che sopportavi con educazione, per non concedere troppe spiegazioni al travaglio del campare. Gli occhiali che ogni volta riponevi con cura dentro il  primo cassetto della scrivania erano calati di fianco, sghembi, brutti, appoggiati ad una guancia sollevata dalla trazione della corda, che aveva sfilato il collo troppo sottile e innaturale, e sembrava tutto strano, tutto sproporzionato, quasi ridicolo, come le tue gambe già lunghe e che sembravano lattice, lente e molli, come quelle dei pupazzi in regalo alle fiere. Ti ho guardato a distanza, da dentro un corridoio nero e gocciolante, spezzato in diagonale dalla luce fredda del neon che ti colpiva in faccia, e ti faceva bianchissimo e senza grazia. Attorno gli attrezzi, la bici vecchia, il motorino impolverato su cui cadeva la tua mano, lo sgabello, la tenda da campeggio arrotolata male, tutto pareva conoscere la tua storia, sembrava ti fossi preoccupato pure di scegliere il fondale per chi avesse voluto guardare il diorama di una vita arrancata e risolta male, inutile per la narrazione questurina del verbale che ho dovuto ripetere per tre volte ad un poliziotto sudato, infastidito da tutto il tempo perso per uno che con quella bella giornata aveva deciso di ammazzarsi in garage, invece di andare al mare o farsi un giro in bici.
Alla fine se ne sono andati quasi tutti, tu per ultimo, ma non doveva essere così, dovevo ancora dirti che qualcosa da salvare c'era e tu eri bravo proprio in quello, a salvare le cose.
Se ti capita, pensami.
Io lo faccio tutte le volte che le spalle fanno male e vedo la tua grafia frettolosa sui faldoni.
Non preoccuparti di quello che hai lasciato, tutto è recuperato e chi è andato doveva andare.
E prova a dormire, chè non sei più riuscito a farlo.

Quasi fosse estraneo a se stesso, il vecchio si soprese prima del caldo liquido che solcava la coscia, poi del brivido contrario provocato dal vento gelido che appiccicava i pantaloni del pigiama alla striscia di piscio che era arrivata fin sopra il ginocchio. Se fosse stato al supermercato, o sulla panchina del parco, avrebbe abbassato gli occhi gialli di cataratta sulla striscia bagnata, sopraffatto dalla pieta' di chi di avesse compreso tutto, impotente di fronte all'ineluttabilita' della vecchiaia, e avrebbe cercato una via d'uscita dagli sguardi compassionevoli del mondo sano, che gli tributava un rispetto fatto di finta noncuranza, di fronte ad una difficolta' che, prima o poi, poteva rappresentare a chi guardava uno degli epiloghi possibili. Ma Aristide Boniolo ritrasse istintivamente il bacino indietro, per evitare soltanto che l'aria fredda gelasse la sua incontinenza, perche' di fronte a lui, in mezzo alle sterpaglie irregolari dell'aiuola povera dove portava a cacare il cane ogni sera, illuminato solo in parte dal bianco lattiginoso di un lampione, c'era un corpo sdraiato, un uomo forse morto, o svenuto, comunque l'unica persona che potesse accorgersi del pigama, del piscio, della paura che aveva attraversato il vecchio in due brividi diversi.
Il cane annusava veloce attorno al corpo che Aristide Boniolo pote' osservare meglio: il dovere civico del soccorso venne meno dall'assenza di persone attorno. Voleva chiamare un'ambulanza, ma non aveva il telefono con sé, e nel quartiere da un po' non si faceva che dire di quanto spaccio, quanto degrado aveva trovato posto tra le panchine della piazzetta, al parco giochi, per strada. Il cane non abbaiava, si limitava a soffiare fiato caldo dalle narici, sembrava dovesse cercare qualcosa. Aristide lo tirò via, trascinò la breve resistenza del cane claudicando, provando schifo per il bagnato sulla coscia e per la sua patetica inutilità. 

Quando seppe che dovevo toglierlo mi rassicurò sbrigativa, come di prammatica. Preparò tutto, mi disse dove sarei dovuto andare - anzi saremmo dovuti andare - per risolvere la situazione. Mi diede un orario che tenesse conto dell'eventuale traffico, mi aspettò mentre guardava Corradino Mineo che faceva la rassegna stampa. Di fronte al medico lasciò che parlassi io, per non attentare al ruolo che, cinque mesi prima, s'era trasformato da quello di figlio minore a quello di uomo di casa. Il mio status era cambiato per meriti sul campo: le ero stato accanto nel momento in cui la malattia, - quella di suo marito, mio padre - ci aveva restituito giorni tortuosi di scoramenti, occhi bassi, tenerezze inconsuete, sorrisi e lacrime annunciate. Lasciò quindi che mi dirigessi senza di lei in sala operatoria, mentre si stava torturando le mani operose secche di tramontana, seduta in punta a una sedia in formica celeste, pensando che suo figlio era lì, da solo, in mezzo a odore di disinfettante che fa svenire, e doveva togliersi un neo. Mi rivide tornare dopo mezzora, senza troppo bianco in faccia, sulle mie gambe, senza alcuna infermiera che mi aiutasse a camminare dritto. Mi chiese come stavo per tre volte, il mio -bene non le diede soddisfazione, per forza dovevo accusare qualche malessere, anche una nausea piccola. Quando gli dissi che avevo solo fame, mi mise davanti due brioches alla crema e un tramezzino. Ma la cosa che le diede vera gioia fu la prescrizione del chirurgo di spalmare, ogni sera, una crema sulla spalla, dove mi avevano asportato il neo. Per quindici giorni. Per quindici giorni l'ho vista staccarmi cerotti con premura, esagerare con la crema, e registrare i miglioramenti estetici.
E' sempre stata così, per me, per tutti. E' sempre stata un unguento da spalmare sulle ferite.

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