tag:blogger.com,1999:blog-3651753144149807182024-02-20T00:52:15.613-08:00SENZASANGUEI nomignoli sono una cosa volgare. Li usa solo la gente ordinaria.Unknownnoreply@blogger.comBlogger35125tag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-33029607061474667902020-06-20T07:24:00.000-07:002020-06-20T23:52:27.513-07:00Il giugno del serpente<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
<div style="text-align: justify;">
Non mi hai permesso nemmeno di dirti ciao, o còpriti, chè avevi sempre il raffreddore e quel tossire secco e nervoso che sentivo dall'altra stanza.</div>
<div style="text-align: justify;">
Arrivavi già stanco e sulle spalle portavi il peso di due rancori familiari e sfiancati, che mai dovevano incontrarsi e che tu abbracciavi tutti i giorni, perché col tuo corpo allargassi la distanza.</div>
<div style="text-align: justify;">
Quando ti ho visto, ho avuto per la prima volta l'impressione che fossi finalmente rilassato, che non avessi più niente da sostenere, niente da giustificare, niente da spostare per far spazio alle commissioni bancarie e ai desiderata di un mondo che sopportavi con educazione, per non concedere troppe spiegazioni al travaglio del campare. Gli occhiali che ogni volta riponevi con cura dentro il primo cassetto della scrivania erano calati di fianco, sghembi, brutti, appoggiati ad una guancia sollevata dalla trazione della corda, che aveva sfilato il collo troppo sottile e innaturale, e sembrava tutto strano, tutto sproporzionato, quasi ridicolo, come le tue gambe già lunghe e che sembravano lattice, lente e molli, come quelle dei pupazzi in regalo alle fiere. Ti ho guardato a distanza, da dentro un corridoio nero e gocciolante, spezzato in diagonale dalla luce fredda del neon che ti colpiva in faccia, e ti faceva bianchissimo e senza grazia. Attorno gli attrezzi, la bici vecchia, il motorino impolverato su cui cadeva la tua mano, lo sgabello, la tenda da campeggio arrotolata male, tutto pareva conoscere la tua storia, sembrava ti fossi preoccupato pure di scegliere il fondale per chi avesse voluto guardare il diorama di una vita arrancata e risolta male, inutile per la narrazione questurina del verbale che ho dovuto ripetere per tre volte ad un poliziotto sudato, infastidito da tutto il tempo perso per uno che con quella bella giornata aveva deciso di ammazzarsi in garage, invece di andare al mare o farsi un giro in bici.</div>
<div style="text-align: justify;">
Alla fine se ne sono andati quasi tutti, tu per ultimo, ma non doveva essere così, dovevo ancora dirti che qualcosa da salvare c'era e tu eri bravo proprio in quello, a salvare le cose. </div>
<div style="text-align: justify;">
Se ti capita, pensami.<br />
Io lo faccio tutte le volte che le spalle fanno male e vedo la tua grafia frettolosa sui faldoni.<br />
Non preoccuparti di quello che hai lasciato, tutto è recuperato e chi è andato doveva andare.</div>
<div style="text-align: justify;">
E prova a dormire, chè non sei più riuscito a farlo.</div>
<!--/data/user/0/com.samsung.android.app.notes/files/clipdata/clipdata_200620_161817_150.sdoc--></div>
Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-88950580545038899232018-11-17T14:53:00.002-08:002018-11-17T20:30:41.645-08:00Aiuola <div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
<div style="text-align: justify;">
Quasi fosse estraneo a se stesso, il vecchio si soprese prima del caldo liquido che solcava la coscia, poi del brivido contrario provocato dal vento gelido che appiccicava i pantaloni del pigiama alla striscia di piscio che era arrivata fin sopra il ginocchio. Se fosse stato al supermercato, o sulla panchina del parco, avrebbe abbassato gli occhi gialli di cataratta sulla striscia bagnata, sopraffatto dalla pieta' di chi di avesse compreso tutto, impotente di fronte all'ineluttabilita' della vecchiaia, e avrebbe cercato una via d'uscita dagli sguardi compassionevoli del mondo sano, che gli tributava un rispetto fatto di finta noncuranza, di fronte ad una difficolta' che, prima o poi, poteva rappresentare a chi guardava uno degli epiloghi possibili. Ma Aristide Boniolo ritrasse istintivamente il bacino indietro, per evitare soltanto che l'aria fredda gelasse la sua incontinenza, perche' di fronte a lui, in mezzo alle sterpaglie irregolari dell'aiuola povera dove portava a cacare il cane ogni sera, illuminato solo in parte dal bianco lattiginoso di un lampione, c'era un corpo sdraiato, un uomo forse morto, o svenuto, comunque l'unica persona che potesse accorgersi del pigama, del piscio, della paura che aveva attraversato il vecchio in due brividi diversi.</div>
<div style="text-align: justify;">
Il cane annusava veloce attorno al corpo che Aristide Boniolo pote' osservare meglio: il dovere civico del soccorso venne meno dall'assenza di persone attorno. Voleva chiamare un'ambulanza, ma non aveva il telefono con sé, e nel quartiere da un po' non si faceva che dire di quanto spaccio, quanto degrado aveva trovato posto tra le panchine della piazzetta, al parco giochi, per strada. Il cane non abbaiava, si limitava a soffiare fiato caldo dalle narici, sembrava dovesse cercare qualcosa. Aristide lo tirò via, trascinò la breve resistenza del cane claudicando, provando schifo per il bagnato sulla coscia e per la sua patetica inutilità. <!--/data/user/0/com.samsung.android.app.notes/files/share/clipdata_181117_235119_421.sdoc--></div>
</div>
Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-84136598993102277502011-02-23T14:21:00.000-08:002016-04-19T12:20:37.231-07:00Mirra<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
<div style="text-align: justify;">
Quando seppe che dovevo toglierlo mi rassicurò sbrigativa, come di prammatica. Preparò tutto, mi disse dove sarei dovuto andare - anzi <i>saremmo </i>dovuti andare - per risolvere la situazione. Mi diede un orario che tenesse conto dell'eventuale traffico, mi aspettò mentre guardava Corradino Mineo che faceva la rassegna stampa. Di fronte al medico lasciò che parlassi io, per non attentare al ruolo che, cinque mesi prima, s'era trasformato da quello di figlio minore a quello di uomo di casa. Il mio status era cambiato per meriti sul campo: le ero stato accanto nel momento in cui la malattia, - quella di suo marito, mio padre - ci aveva restituito giorni tortuosi di scoramenti, occhi bassi, tenerezze inconsuete, sorrisi e lacrime annunciate. Lasciò quindi che mi dirigessi senza di lei in sala operatoria, mentre si stava torturando le mani operose secche di tramontana, seduta in punta a una sedia in formica celeste, pensando che suo figlio era lì, da solo, in mezzo a odore di disinfettante che fa svenire, e doveva togliersi un neo. Mi rivide tornare dopo mezzora, senza troppo bianco in faccia, sulle mie gambe, senza alcuna infermiera che mi aiutasse a camminare dritto. Mi chiese come stavo per tre volte, il mio -<i>bene </i>non le diede soddisfazione, per forza dovevo accusare qualche malessere, anche una nausea piccola. Quando gli dissi che avevo solo fame, mi mise davanti due brioches alla crema e un tramezzino. Ma la cosa che le diede vera gioia fu la prescrizione del chirurgo di spalmare, ogni sera, una crema sulla spalla, dove mi avevano asportato il neo. Per quindici giorni. Per quindici giorni l'ho vista staccarmi cerotti con premura, esagerare con la crema, e registrare i miglioramenti estetici.<br />
E' sempre stata così, per me, per tutti. E' sempre stata un unguento da spalmare sulle ferite.</div>
</div>
Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-7139283221676380672010-08-31T12:55:00.000-07:002010-09-02T14:33:32.121-07:00Guerrilla<div style="text-align: justify;"><span class="Apple-style-span" style=" ;font-size:15.9722px;">L'ingresso col neon grande, la rampa per le ambulanze, le scale e gli ascensori lunghi, il linoleum sul pavimento, il verde delle pareti, le ciabatte trascinate, i passi incerti, i deambulatori, la saletta con la tv e le sedie a rotelle, la statua di padre pio coi rosari attaccati, i quadri bruttissimi, il manifesto di un congresso medico, la saletta delle infermiere, i succhi di frutta, il bar delle flebo su trampoli, pigiami e scatole di cioccolatini, l'intimità condivisa, i calzettoni ad agosto, gli occhi gialli, le barbe lunghe, i pigiami nuovi, la cappella essenziale con pochi banchi, i golf sopra i pigiami, i sorrisi carichi di angoscia, le mani strette come non si erano mai strette, gli sguardi rassegnati, il gergo tecnico pronunciato da occhi bassi per confondere una sentenza di condanna, le speranze, i sorrisi, le buste di plastica con le canottiere pulite, i succhi di frutta, la minestra alle diciotto e trenta, i biscotti, le sedie di formica grigia, l'odore secco di disinfettante, che dà la nausea, e ti spinge fuori, nell'aria calda di pino, e le aiuole sono ben curate e ospitano panchine all'ombra. La vita riprende con la fronte aggrottata e i salvi respirano di nuovo per sentirsi più tristi e fortunati. </span></div>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-30837948327934238532010-07-14T03:13:00.000-07:002010-08-31T14:01:40.603-07:00Bugiarderie<object width="480" height="385"><param name="movie" value="http://www.youtube.com/v/I7WF2LakGJI&hl=it_IT&fs=1"><param name="allowFullScreen" value="true"><param name="allowscriptaccess" value="always"><embed src="http://www.youtube.com/v/I7WF2LakGJI&hl=it_IT&fs=1" type="application/x-shockwave-flash" allowscriptaccess="always" allowfullscreen="true" width="480" height="385"></embed></object>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-32515970354847572232010-06-24T16:41:00.000-07:002010-06-24T16:42:58.102-07:00Mi serviva solo un filtro<div style="text-align: justify;"><span style="font-size: 11pt; line-height: 115%; "><span class="Apple-style-span" style="font-family:georgia;">Alla fine con la foto c’ho fatto un filtro. Non avevo cartoncini, biglietti dei treni, nemmeno un biglietto da visita, niente. Avevo pensato di farlo con la tessera della libreria, ma mi mancavano solo due timbri per avere </span></span><span style="font-size: 11pt; line-height: 115%; "><span class="Apple-style-span" style="font-family:georgia;">un buono sconto da dieci euro. Allora ho preso la foto che mi ero cartonato e l’ho tagliata precisa, due centimetri per due centimetri, all’altezza del viso. Non era per esorcizzare o dare una svolta simbolica al passato, no. Mi serviva solo un filtro, e in quel momento c’era solo la sua faccia che mi sorrideva quando insieme eravamo andati al mare e lei era perfetta e io avevo i jeans. I jeans al mare. Nella foto si vedevano i suoi sandali e le mie scarpe da ginnastica. Mi serviva un filtro e basta, era sera e pensavo che quella foto facesse al caso mio, non avevo niente da arrotolare, qualcosa di vagamente rigido che tenesse rigida la cartina il tabacco e tutto il resto. Non ci penso più da un bel po’ a lei, quella foto è uscita fuori quando mi serviva un pezzo di cartoncino per farmi una canna. Non è la miglior cosa, una foto, per fare i filtri. Sulla carta della foto è pieno di chimica e ti fumi pure quella. Già quello che fumo è robaccia tipo lucido di scarpe, se ci metto pure la chimica delle foto finisce che mi sconvolgo come i ragazzini nelle fogne di Bucarest. Però era l’unica cosa che avevo al momento, mica potevo strappare un pezzo di copertina dei libri. Ho cercato per un po’, ma niente, solo quella foto. Volevo fumare, avevo una voglia assurda di fumare, la foto era lì sul tavolo e faceva un caldo terribile, volevo fumare e c’era lo stesso caldo di quella giornata al mare, quando mi teneva per mano e io le dicevo che sembravamo quelli della pubblicità del profumo, e immaginavo che tutti ci guardavano e dicevano guarda che bella coppia. Non avevo nient’altro che quella foto per fare un filtro, allora ho piegato il cartone all’altezza della sua testa, ho strappato un rettangolo di foto e l’ho arrotolato. Le ho staccato la testa perché lei mi ha portato via il cuore.</span></span></div>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-74467825147846433042010-02-22T16:15:00.000-08:002016-04-19T12:32:42.441-07:00La liturgia imperfetta<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
<div align="justify">
<br />
Filippo aveva venticinque anni, ma ne aveva percorsi solo metà sulle proprie gambe. Tredici anni prima la bicicletta che aveva ingrassato per tutto un pomeriggio lo aveva sbalzato di lato, e la schiena s’era spaccata sopra uno scalino in cemento. Quando lo sollevarono nemmeno piangeva: le gambe caddero appaiate di lato come se stesse sciando e dovesse affrontare una curva. Il medico parlò di frattura di due vertebre dorsali e lesione del midollo spinale. Poi disse parole come paralizzato, sedia a rotelle, terapia ed altre cose, ma ormai la madre di Filippo aveva nelle orecchie solo un fischio lungo, continuo.<br />
Valentina entrò trafelata in ferramenta e le guance le s’infiammarono di capillari riattivati. Aprì la borsa e tirò fuori la busta gialla: Vincenzo sorrise, la prese e la mise sul tavolo.<br />
Filippo, nell’altra stanza, stava attento ai rumori che catturava. Sentì, ad un certo punto, i passi che si avvicinavano, spostò in avanti la sedia a rotelle verso la libreria, e il suo cuore patì un’aritmia breve.<br />
Valentina tolse il cappotto ed abbassò le calze sulle caviglie. Sostenendosi ai braccioli della sedia a rotelle scese piano sulle ginocchia del ragazzo. Vincenzo le aveva spiegato che il figlio non poteva sentire dolore agli arti inferiori, ma lei non riusciva comunque a rilassarsi sopra le gambe magrissime del ragazzo.<br />
Rimase rigida, senza guardare le mani frenetiche del paraplegico che spostavano le mutandine di lato e infilavano con forza le dita in fondo alla fica.<br />
Il cuore di Filippo, allora, irradiò sangue veloce, che si disperse inutile nelle periferie di un corpo conosciuto per metà. Racchiuse i seni piccoli nei palmi, senza stringere, facendo scorrere le cuciture del reggiseno in mezzo alle dita, che, ogni mese, aspettavano quel giorno per sperimentare aderenze ed umidità rare. Il viso era sprofondato sulla schiena, a respirare il profumo di lei.<br />
Da quando il padre era stato licenziato, la madre di Valentina puliva le scale di sei condomini, uno al giorno, ma i soldi non bastavano per tutte le spese. Valentina, invece, lavorava mezza giornata in una pizzeria ed una volta al mese lasciava che Filippo celebrasse sul suo corpo quella liturgia imperfetta. In cambio, il signor Vincenzo Boniolo offriva un generoso sconto sull’affitto di casa.<br />
Non passarono molti minuti, e la ragazza abbassò il maglione bianco. Quel gesto rappresentava il segnale che l’escursione stava giungendo al termine.<br />
Filippo indugiò sui seni, e Valentina si alzò delicatamente, ma in maniera decisa. All’improvviso, si sentì afferrare i fianchi e Filippo tentò di baciarla, riuscendo soltanto a sbavarle il collo.<br />
- Smettila. <br />
Il ragazzo si ritrasse, sbloccò la sedia a rotelle e poi finse di dover cercare qualcosa dentro uno scaffale, aspettando che il viso riprendesse l’incarnato pallido di sempre. Valentina, invece, indossò il cappotto che aveva lasciato sopra sedia.<br />
- Ciao.<br />
Lui non si voltò a salutarla.<br />
Valentina riprese al contrario il corridoio per arrivare nell’altra stanza, e trovò Vincenzo Boniolo che faceva le parole crociate. Le sorrise e lei se ne andò.</div>
</div>
Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-7780452490931920212010-02-03T04:58:00.000-08:002010-02-03T16:06:32.288-08:00Il poeta delle quattro di notte<p align="right"><br />"<em>Il mondo è un frettoloso groviglio d'ingiustizie</em>"<br />(Zamo)</p><p align="justify"><br />- Chi è?<br />Apro la porta. Mano destra a paletta sollevata in aria. Registro dei piantoni in mano. Guardo un punto indefinito dietro la finestra.<br />- Capitano, comandi. Trasmettitore Mellini Carlo quarantunesimo reggimento trasmissioni battaglione Frejus compagnia comandi e servizi secondo plotone. Comandi.<br />- Dica.<br />- Io sono quello che ha mandato a chiamare…<br />- Per cosa?<br />- Per la frase…<br />- Aaaahhhhh…. - all’unisono il comandante e il tenente mi guardano. Il comandante si chiama Alessandro Molas e comanda la compagnia comandi e servizi, quella a cui sono stato assegnato. E’ magro, tirato, due baffi stetti e regolari. Sembra Francisco Franco più alto. Il tenente si chiama Gianni Scarlatti. Un deficiente col padre e nonno militari. Praticamente uno con la vita già cucita dentro un orribile divisa verde. Vessato da Molas che spesso lo umilia di fronte a noi soldati semplici.<br />- Abbiamo il poeta delle quattro di notte, tenente! Mellini, apra il registro… legga… legga la composizione…<br />Molas mi guarda col ghigno di chi la sa lunga, Scarlatti con lo stesso ghigno, ma meno convincente. Deve imparare, il tenente. Mi sa che quando al corso per sottoufficiali c'era la lezione "Posture psicosomatiche da stronzo" Scarlatti era assente.<br />- “Possono farci qualunque cosa ma non possono fermare il tempo”<br />- Lo sa che è reato scrivere sopra un registro ufficiale?<br />- No, non lo sapevo…avevo visto altri registri pieni di scritte ed ho scritto anche io…<br />- E che fà? Scrive le cose 'a pappagallo'? Lei vede gli altri che fanno una cosa e la ripete? Ha sentito, tenente?<br />- (<em>maporcamadonna</em>) …<br />- Stia eretto! - mi ordina il tenente. Ma senti che tono 'sto coglione.<br />Il comandante si alza e prende un fascicolo. Lo sfoglia per un po’, poi tira fuori una cartelletta da ufficio. La apre e legge.<br />- Mellini Carlo di Mellini Gianni e Lentu Maria… padre operaio e madre casalinga… due sorelle… perché fa queste cose?<br />- Quali cose?<br />- Lei è già stato punito insieme a De Falco.<br />- Si, ma perché…<br />- Perché fa queste cose? Lei ha paura di me o del tenente? Si sente minacciato?<br />- (<em>mannaggiaddio</em>) No…<br />- E allora perché scrive queste cose? Si droga? Che droghe usa?<br />- Come?!<br />- Fa uso di droghe?<br />- (<em>Si</em>) No!<br />- Ma come no… Jim Morrison… ’ste frasi… su... mica vorrà farci credere che non si è mai fatto uno spinello?<br />- (<em>senti, comandante di 'sto cazzo. Sto in questa caserma da tre mesi e per tre mesi t’ho visto lavorare fino alle otto e mezza di sera. Se vuoi puoi uscire alle quattro. Ho visto pure tua moglie. La vedono tutti quando entra in caserma. E’ tanto troia, e lo sai. E sai pure che c’ha una voglia di cazzo che la metà basta. Tuo figlio non l’ho conosco ma possibile che stia rollando – che ore sono, le quattro del pomeriggio? – la quinta canna della giornata. E c’ha ragione a sballare. Perché avere un padre del genere, porcodio, deve essere dura. Perchè tu c’hai un sacco di problemi, ma problemi grossi. Ti preoccupi di un registro del cazzo su cui annotiamo chi entra ed esce da questa cazzo di caserma del cazzo e sono sempre le stesse cazzo di persone. Io ho scritto sul registro perché mi stavo rompendo i coglioni di notte e l’unica cosa che mi è venuta in mente è stata quella frase, va bene? Non puoi cacarmi il cazzo per mezz’ora solo per giustificare la tua faccia di cazzo in questo ufficio. Non c’è bisogno. Lo sappiamo tutti perché stai qui. Non ti tira più l'uccello e aspetti che finisce il turno di uno che ancora riesce a far urlare quel puttanone da sbarco di tua moglie. Anzi, no. Adesso tua moglie di sicuro c’ha la bocca attappata, stronzo.</em>)<br />- No, non mi drogo.<br />- Quindi lei non avrebbe nulla in contrario se io le ordinassi di fare il drug-test.<br />- Nessun problema.<br />- Bene…tra una settimana parte uno scaglione per l’ospedale. Lei si aggregherà.<br />- Perfetto.<br />- La tengo d’occhio, Mellini.<br />- Posso andare? </p>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-55100586636771745842010-01-31T16:37:00.000-08:002010-02-01T00:17:29.274-08:00Once<div align="justify">La velocità le ricacciava indietro le sillabe perciò doveva sporgersi verso l'orecchio e prendersi in faccia il vento al di là del parabrezza. Lui rideva, e cantava canzoni che lei indovinava, perchè erano le sue stesse canzoni e tutto era perfetto. Come le gambe che si toccavano e le mani dentro le tasche larghe, sentiva il suo corpo attraverso le dita che gli stringevano i fianchi. Allungò una mano, lasciando la manopola per accarezzarle una coscia, e al semaforo l'uomo dentro la macchina lì guardo, infreddoliti e bollenti, sopra un motorino che cavalcava tutto quello che sarebbe potuto essere, ma non poteva. Loro due lo sapevano, ma sorridevano comunque al tempo veloce per assaggiarsi e sentirsi affamati. Il resto furono gli occhi dentro agli occhi e labbra che sapevano dell'altra saliva, cibi inconsueti per pranzo e troppe parole, perchè del tempo rubato bisognava subito disfarsene per toccarsi e baciare dove s'era sognato. Era freddo, quell'amore improvviso si ghiacciava di vapore dentro le mani e sembrava più vero, perchè quasi si vedeva, e dentro c'era la bellezza di scoprirsi così perfetti da non poterlo dire. </div>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-54022882767336085562010-01-08T15:18:00.000-08:002010-01-08T23:26:32.914-08:00Va tutto benissimo<div align="justify">Non ci sarà nessun intoppo, tranquilla. Ce la facciamo sicuramente. Sono due giorni che ci passo, che vengo qui. Non ci sono telecamere, i camion stanno nel parcheggio che scende di sotto, e gli autisti dormono. E’ un autogrill tranquillo, piccolo, infatti manco è un autogrill. Non c’ha il tornello che gira all’entrata, non c’ha i bagni interni. Per pisciare devi uscire ed entrare vicino. E’ tipo un container grosso e lungo, capito? Appoggiato lì su uno spiazzo di asfalto. Però ci si ferma un sacco di gente di mattina, ma di sera pochi. L’altro autogrill, quello più grosso, è a quaranta kilometri, chi deve pisciare non aspetta quaranta kilometri. E’ nostro, amore, è quello che cercavamo. Entriamo dentro, non ci mettiamo tantissimo, facciamo quello che dobbiamo fare e ce ne andiamo tranquilli, e non succederà niente. Giuro. Niente. Appena abbiamo fatto prendiamo la prima uscita e tu mi accompagni alla macchina. L’ho lasciata al parcheggio, ricordi? A quel punto io vado a casa, e tu mi segui con l’altra macchina. E’ perfetto, faremo così, ci abbiamo pensato per tutto il tempo, io credo che sia perfetto. Eccolo lì, ci mancano trecento metri. Parcheggio davanti così ci mettiamo due secondi ad andare via una volta finito. Ok. Prendi la borsa, io prendo la mia. Tranquilla e respira. Andiamo alla cassa e ci mettiamo in fila. Perfetto, vedi? Va tutto benissimo. Dai, dopo questa cicciona tocca a te. Apri la cerniera, lascia andare al bancone la cicciona e metti la mano dentro la borsa. Va tutto bene. Lasciala finire di mettere i soldi della cicciona in cassa. Ti guarda. Ti sorride. Io sono alle tue spalle, non preoccuparti. Va tutto bene. Vai, adesso.<br /><br />- Un cappuccino e un cornetto. Tiepido, il cappuccino. </div>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-9280865872582565942009-12-23T04:33:00.000-08:002009-12-23T04:36:10.717-08:00Altre scarpe in fondo al letto<div align="justify">La ciocca bruna scese sulla faccia ed assunse i colori del rosso. Michele la guardò e pensò che era una delle cose che lo avevano innamorato: quella ciocca cadeva sempre quando doveva e se succedeva c’era di mezzo un impulso forte, viscerale e si finiva sempre, comunque, accaldati. Anche in quel momento avvampò. S’era innamorato dei suoi dettagli, della sua bellezza imperfetta, leggera e lineare che scorreva sul naso piccolo e le labbra rosa, arricciate ogni volta che si trovava davanti ad uno specchio. Oppure gli occhi, che dilatavano lo sguardo ad oriente: lei lo sapeva, stendeva kajal e le voglie scorrevano oltre la traiettoria del profilo. Continuò a guardarla mentre lei riconosceva per la prima volta un imbarazzo inconsueto. Perché già imbarazzo c’era stato, ma all’inizio, quando i nervi sono contratti dall’emozione ed il movimento è maldestro di impazienza e voglia. La prima cosa che avvertì fu l’estraneità dell’odore, in quella camera che era così familiare nelle luci basse, gli incensi e il disordine pensato. Gli sembrò, d’improvviso, che le sue cose fossero disposte male. Ma era soltanto il disgusto d’essersi accorto che da ora in poi ci sarebbe stato un altro odore, altri libri sopra il comodino ed altre scarpe abbandonate in fondo al letto. Michele lo immaginò mentre le sollevava frenetico la gonna prima di scoparla sulle stesse lenzuola sopra cui anch’egli aveva sudato. Sicuramente aveva usato il suo sapone e non volle guardare oltre lo scroscio della doccia. Quindi rimase piantato lì, senza dire niente, con lo stupore che gli schiudeva le labbra e lo sgomento che batteva in gola, mentre lei si nascondeva dietro la sua ciocca e dentro le lenzuola. I secondi di immobilità servirono a rielaborare in fretta che il suo amore non finiva in quel momento, ma sarebbe dovuto scolare dentro lacrime irregolari e sperò in uno squarcio poco doloroso, come quando si fa uscire una scheggia di legno dai polpastrelli. Poi sentì il calore diffuso di chi deve prendere decisioni che hanno a che fare con l’orgoglio. Uscì di casa trattenendo in mezzo ai denti il rumore violento di cose fracassate, mentre tutto si scioglieva dentro la banalità di un copione degno del peggiore dei romanzi d’appendice</div>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-72144001635355811372009-11-30T13:10:00.000-08:002009-12-01T01:17:42.281-08:00L'ultimo respiro<div align="justify">“…ma sai, io penso che una volta morti l’anima mica vada giù o su… credo che sia una semplificazione per gli uomini, per la nostra inadeguatezza di fronte al trascendente... per tramandare un concetto, quello della vita, a cui siamo ingenuamente legati ed incapaci a capirne il mistero della fine… una volta avevo letto che l’uomo è l’unico animale che passa la vita a cercare di capire la propria esistenza… è vero, perché abbiamo confini delimitati, così come è breve lo spazio di manovra della nostra mente… non possiamo concepire l’idea semplice del passaggio, perché non siamo pronti a riempire di contenuti il concetto di “passaggio”… come se tutto dovesse avere un senso, un risultato, un’aspettativa… capito? Non so dove vada a finire l’anima. Cazzo, io non so nemmeno dirti cos’è l’anima… che cos’è? Il nostro essere qualcosa? L’ultimo respiro? Io non ne ho idea. L’anima forse è quello che respiriamo, le parole che ci dicono e diciamo, quello che leggiamo, l’ipocrisia e la verità, il cibo, l’amore e le scopate… insomma, l’anima è dappertutto. E’ nelle cose proprie e in quelle degli altri. L’anima non è una cosa originale, l’anima è vita affastellata dentro tutte le vite. E quindi non va da nessuna parte… forse si frantuma ed esce, e agli altri non rimane che respirarla… ma non lo so... forse, il mio è solo un delirio…”<br />“Ed ora che farai?”<br />“Nulla, starò qui. Cosa dovrei fare?”<br />“Posso farti una richiesta?”<br />“Dimmi”<br />“Posso baciarti gli occhi, quando succederà?”<br />“Perché?”<br />“Perché hai paura.”<br />“Non è vero. Sono sereno.”<br />“Va bene. Bacerò i tuoi occhi, però.<br />“Perché?”<br />“Perché dentro c’è passata tutta la tua vita prima di tutto questo. Voglio baciare la vita vera, la tua vita, quella che se ne va, quella vita che t’ha spaventato quando chiudevi gli occhi per non vederne l’orrore. Vorrei baciarti via tutto questo orrore.”<br />“La sai una cosa?”<br />“Cosa?”<br />“Ho paura” </div>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-34607382873368603342009-11-12T02:42:00.000-08:002009-11-12T02:55:18.789-08:00Substantia nigra<div align="justify">Non è possibile, pensò il signor Fernando Gallucci affacciato alla finestra del suo appartamento al quarto piano. Rientrò in casa e lasciò che la mano destra, eccitata dal Parkinson, fosse trattenuta dalla tasca della vestaglia. Non è possibile, e scosse la testa secca, frugando con la mano buona dentro un cassetto. Prese una chiave vecchia e di bronzo, come quelle che venivano fabbricate una volta. Una volta, quando le cose andavano bene e il viale sotto casa non era pieno di negri con le loro borse false. Sua moglie non avrebbe mai comprato quelle borse così dozzinali. Si vedeva dalle cuciture storte e dai rivetti. Una volta era pulito, lì sotto, e la gente usciva con la cravatta e lui si toglieva il cappello quando incontrava qualcuno. Una volta non c’era quella puzza di gas di scarico che aveva annerito pure la voglia di salutare, una volta si potevano stendere i panni fuori. Non è possibile, disse solo con le labbra, ed aprì la teca che custodiva i due fucili, dritti e scuri come il giorno che aveva giurato fedeltà al duce, e ne prese uno. Non aveva più sparato da quando la malattia aveva compromesso anche la possibilità di tenere in mano il mestolo per girare la pasta. Le pantofole marroni attraversarono il salotto congelato dentro agli anni sessanta, e Fernando guardò le foto della moglie ritratta a Firenze, di fronte al duomo. Passò l’indice sopra il vetro che preservava il viso della donna dal pulviscolo grigio, che si depositava sul comò in ciliegio e scendeva a nascondersi in gomitoli inconsistenti, sotto il divano. Da tempo non riusciva ad attaccare le immagini agli eventi e per questo s’era riparato sotto la dinamica di consuetudini domestiche, mentre tutt’attorno il tempo sommesso dell’attesa sgocciolava come i rubinetti chiusi male, cogliendolo insonne, con l’unica preoccupazione dei nomi delle medicine, conservate dentro il frigorifero insieme alle uova. Trascinò i piedi fino al balcone, con la mano tremante sorresse il fucile e sparò.<br />Quando scese in strada vide soltanto un enorme macchia scura di sangue sull’asfalto. Aveva ucciso il cavallo ed il carabiniere, invece, s’era slogato un polso. Peccato, pensò Fernando Gallucci, mentre i nervi impazziti facevano risuonare le manette come campanelli. </div>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-19065118219910906332009-11-07T00:09:00.000-08:002009-11-07T05:41:47.425-08:00Cinque novembre<div align="right"><em><span style="font-size:85%;color:#666666;">We are the sons of no one, bastards of young </span></em></div><div align="right"><em><span style="font-size:85%;color:#666666;">We are the sons of no one, bastards of young </span></em></div><div align="right"><em><span style="font-size:85%;color:#666666;">The daughters and the sons </span></em></div><div align="right"><em><span style="font-size:85%;color:#666666;"></span></em></div><div align="right"><em><span style="color:#666666;"></span></em></div><div align="right"><span style="color:#666666;"></span></div><div align="right"><em><span style="font-size:85%;color:#666666;"></span></em></div><div align="right"><em><span style="font-size:85%;color:#666666;"></span></em> </div><br /><br /><div align="justify">L’undici vado a vedere Il Teatro degli Orrori. Immagina la furia dei Fugazi, i Fiori del Male, e tutti i linguaggi di Artaud. Sarebbe stato il tuo gruppo preferito, la sintesi. Ci saresti andato totalmente in fissa. Quando m’hanno detto che avevi sbiancato, e stavolta per sempre, era mattina. Me lo disse mio padre. E ha aggiunto “s’è pure pisciato sotto”. Io non t’ho saputo immaginare, perché i contesti erano troppi. Mi ricordo solo che lo stomaco s’è stretto dopo un brivido, ed ho vomitato tutte immagini tutte insieme. Anche quelle finte, quelle esagerate. Tipo dentro il cesso di una metropolitana newyorkese, con le piastrelle celesti e i neon che sgraziano ogni cosa e tu, seduto per terra, in mezzo ad un lago di piscio ed acqua che esce dalle tubature. La versione punk-rock della tua morte. Ecco, quella mattina ho vomitato pure ‘sta versione. Questo per dirti che quella sensazione non l’ho provata più. Ho imballato l’emisfero sinistro dentro inossidabili convinzioni di comodo. Poi è successo di nuovo che lo stomaco espellesse quello che poteva, supplicando il cervello di espellere quello che doveva. Adesso non c’è il vuoto, c’è niente. E voglio lasciare che tutto entri, senza le cartilagini del giudizio e del timore. Non avrei immaginato un sacco di cose, Gian, ed invece di cose ne sono successe. Non sono venuto quando c’erano tutti perché c’erano tutti. C’erano troppi pensieri uguali e io avrei fatto gli stessi pensieri degli altri, controllando se la foto si vedesse bene e quanti fiori avevano lasciato sopra il marmo. Non t’avrei saputo dire niente, che cazzo venivo a fare? Invece adesso è freddo e di gente ce n’é poca, ci stanno quelli che forse hanno lasciato troppi discorsi in sospeso e allora tornano qui. Molte volte sembrano affaccendati a pulire le lapidi, ma io lo so che stanno parlando. Quando si parla con uno che non c’è più si finisce per essere scarni e brevi, perché si crede che chi abita un’altra dimensione sia capace di leggere i pensieri. Non so in quale dimensione tu sia finito, Gian, spero solo che sia calda, ché morivi di freddo pure a luglio, dentro una tenda che abbiamo riempito di allucinazioni e bassi distorti mentre fuori l'aria s'incendiava di post-rock industriale. Ho conosciuto catwoman e mi ha chiesto pazienza. E’ bella e sorride spesso e dovrei aspettarla. Se mi viene in mente qualche cazzata, ti prego Gian, avvisami, fammi risuonare nelle orecchie l'attacco di Bastard of young, va bene?</div>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-40587025719156083772009-10-21T11:11:00.000-07:002009-10-22T01:43:44.428-07:00Premura e vodka<div align="justify">Le mie braccia puoi prenderle, perché te le sei già prese quando hai passato in rassegna le cicatrici chiuse male, ed io ho lasciato che coi polpastrelli scoperchiassi tutto il terrore che custodivano, per vederti liquidarlo nella banalità di una compassione che non meritavo affatto. Tieniti le orecchie, che risuonano delle tue promesse, quelle promesse con cui hai foderato le pareti del mio ipotalamo, lasciandomi da sola a staccarne i pezzetti, perchè l'umidità delle tue scuse ne aveva arricciato gli angoli. E noi passavamo la notte a togliere la polvere da parole sussurrate in toni minori. Ricordi? usavamo stracci imbevuti di premura e vodka, e avevamo giurato che quelle parole non avrebbero più fatto irrigidire i nostri nervi fasciati dentro l’autunno delle trame del mio cappotto. Prenditi le gambe, splancate e fredde e raccolte in mezzo alle tue, come quando dormivamo sulla parte bagnata del letto. Riscaldale alla luce della lampada rossa che accendevi per poiettarci sopra l’ombra delle tue voglie, che alla fine non riconoscevo diversa da quella dei tuoi deliri. Ti lascio anche gli occhi, nascosti dentro alle rughe dove scolava la dose di quotidiana pietà a cui m’hai abituata. Ti regalo il suono delle mie parole: erano autentiche e mi pareva s’incastrassero con le tue, invece tu ne avevi pronte all’uso, dentro buste di romanticismo a saldi, ma era buio e non vedevo i tuoi denti mentre aprivano la confezione. La mia bocca puoi anche buttarla, così come la lingua, perché a leccare le ferite degli altri finisce che ci si infetta.<br />Lasciami solo le unghie, perché sanno ricrescere, e potrò morderle quando la tua assenza mi svuoterà lo stomaco e curarle di nuovo e renderle belle, per conficcarle ancora dentro schiene che sapranno meritarle</div>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-89831276003958861162009-10-13T16:15:00.000-07:002009-10-13T22:57:06.111-07:00Perchè non ci credevo<div align="justify">“Perché i barboni, come te li immagini tu, qui mica ci vengono. Quelli son fuori di testa, è gente che s’è fatta divorare dai propri mostri alcolizzati e psicopatici. Ma quale scelta di libertà, stare per strada non è libertà di un cazzo. No, quelli non ci vengono qui. E se vengono te ne accorgi perché mischiano tutto insieme. A mensa, dico. Mischiano la pasta con l’insalata con la cotoletta, tutto. Perché sono abituati a cercare nei cassonetti. E nei cassonetti mica ci trovi il primo il secondo e il dolce. E poi se ne vanno. Dormono in giro, sui cartoni. Qui ci vengono quelli che un lavoro ce l’hanno, ma gli basta per l’affitto. Allora vengono a cena, con tutta la famiglia. Tipo sono rumeni, albanesi. Oppure quelli che dormono in un altro ostello e la sera si fanno un giro. Almeno si lavano. No, Io qui ci sto da tre anni. Come è andata? E niente, ad un certo punto ho perso tutto. Era estate. Io facevo il camionista. Tornavo da un viaggio da Bologna e lì avevo caricato sette barre da sei metri. Barre belle spesse, di acciaio. E il ponte era più basso delle barre. Ha sbattuto, s’è aperta la spondina e le barre son finite dritte dentro al vetro della macchina che c’avevo dietro. Come spade. Ho ammazzato una ragazza che mi stava appiccicata, che voleva sorpassarmi per sbrigarsi. Erano dodici ore che guidavo e m’ero fatto due botte di cocaina. M'hanno fatto l'esame e 'sta storia della roba è uscita fuori, mi son fatto la galera e nel frattempo mia moglie si faceva un’altra vita. La casa era la sua e adesso ci abita con uno e con mia figlia. Una volta ho visto passare mia figlia. L’ho riconosciuta per il maglione rosa. Era lei, sicuro. S’è fatta i capelli neri, ma è sempre stata castana. Quando sono uscito di galera avevo cinquatatré anni, ed ero senza patente, senza moglie, senza lavoro e senza casa. I primi tre giorni non ho mangiato perché non ci credevo. Non volevo chiedere la carità, mica ero un barbone. Poi uno si abitua e adesso aiuto in lavanderia. Ho il letto mio e pulisco le stanze. Ci tengo alla pulizia, se uno si lascia andare poi diventa un barbone e va fuori di testa. No, io con la testa ci sto ancora. </div><div align="justify">Posso mangiare le tue patate, se le lasci?”</div>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-49204724838879456922009-09-16T04:09:00.000-07:002009-10-16T07:46:44.750-07:00Almeno cento euro<div align="justify">Il Cinghiale aspettava fuori dal balconcino del corridoio, due metri quadrati affacciati sul tetto piatto e basso della mensa, da cui usciva un getto largo di vapore grasso che puzzava di brodo e roba scondita. Di fronte, un altro muro chiudeva la vista del parcheggio.<br />Fumava tranquillo, mentre una pioggerellina leggera abbassava il livello di inquinamento della città e l’umore di chi da troppi mesi non vedeva il sole.<br />Lanciò la sigaretta sopra il tetto della mensa, e s’accorse che il vento aveva raccolto tutti i mozziconi in un angolo, dove in mezzo alle piastrelle era cresciuta spontanea un’erba verdissima, che spezzava la routine di grigio e beige dell’intonaco dell’ospedale.<br />Rientrò in corsia che puzzava di fumo.<br />Si lavò le mani in un bagno degli infermieri e mise in bocca una mentina, poi prese la sua cartella ed uscì.<br />Entrò in una stanza piccola, illuminata solo dalla luce bianca del sole che passava a tratti tra le nuvole in transito serrato.<br />Sopra un letto stava adagiato, immobile, il corpo di un uomo, sorvegliato dagli occhi stanchi di una donna anziana. Appoggiato sulla sedia c’era un sacchetto grande e nero, di una marca elegante di vestiti. Attorno al letto il trespolo di una flebo, staccata.<br />La stanza era spoglia, liberata anche dalle riviste e dalle confezioni aperte dei biscotti. Rimanevano soltanto pochi centimetri di succo di frutta alla pera dentro un bicchiere di plastica. Il letto accanto non era occupato da nessuno.<br />La signora guardò il Cinghiale e gli occhi erano crateri rossi.<br /><br />- Là dentro c’è il suo vestito. Mi raccomando la cravatta. Quando usciva metteva sempre la cravatta<br />- Non si preoccupi, ci penso io</div><div align="justify">- Vado via. Dentro questo pacco ci sono i soldi, li consegni lei. Deve solo vestirmelo e lasciare i soldi a quelli delle pompe funebri che verranno a prenderlo. Penseranno a tutto loro.<br />- Non ci sarà il funerale?<br />- No. Mio marito era senza dio. Voleva essere cremato e lasciato libero sulle montagne della Val di Susa. Ma le cremazioni costano tanto e prima ci sono gli ultimi debiti di gioco da saldare. Non credo ci vedremo più, caro, volevo ringraziarti per tutto quello che hai fatto per Adelfio</div><div align="justify"><br />La signora aveva il portamento signorile di chi ha conosciuto il lusso e i segni sul viso di chi ha visto perdere tutto, case, argenteria, quadri, mobili, dignità.<br />Salutò il Cinghiale stringendo la mano magra ed ossuta sopra il camice verde. Le caviglie sottilissime sembravano perdersi dentro l’austero delle scarpe nere con poco tacco.<br />Il Cinghiale entrò nella stanza e chiamò con l’interruttore altri due infermieri, che adagiarono il corpo dell’uomo sopra una lettiga per portarlo all’obitorio. Poi prese il sacchetto con il completo nero e percorse i due corridoi in linoleum.<br />Entrò nella stanza di Carmine Bucciella, che stava mangiando riso in bianco ed una cotoletta scondita. La moglie, pingue e macchiata di psoriasi, lo salutò con un sorriso largo e riconoscente.<br /><br />- Carmine buongiorno. Ho trovato il vestito, eh.<br />- Ah, grazie, infermiè. Quanto vi devo?</div><div align="justify">- Eh, questa è roba di classe. Almeno cento euro</div>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-79519537444272104222009-09-06T15:27:00.001-07:002009-09-07T04:18:23.691-07:00Settembre crudele<div align="justify">Prima di trovare l’interruttore tastò numerose volte il muro, come se in quella casa non ci fosse mai stato.<br />Quando la lampadina accese di giallo polveroso l’unica stanza dell’appartamento, vide che attorno alla maschera dell’interruttore c’erano numerose ed irregolari strisce rosse.<br />La mano era imbrattata del sangue uscito dal naso e da un taglio sulla tempia.<br />Gli avevano fatto molto male.<br />Respirava affannosamente, un po’ perché era ubriaco, un po’ perché proprio non riusciva: forse qualche costola era rotta ed allargare il torace significava lasciarsi trapassare da fitte lancinanti, che si irradiavano dal costato fin dietro alla schiena.<br />Aprì il frigorifero e prese una birra in lattina.<br />Appoggiata alla bocca, avvertì un gonfiore diffuso sul labbro superiore.<br />Nel lavello s’erano accumulate settimane di piatti sporchi, due bicchieri e vasetti di yogurt, e un milione di propositi disattesi.<br />Sputò sopra un piatto in bilico e l’inclinazione fece scorrere bava rosa. Si passò la lingua sui denti per essere sicuro che fossero tutti al proprio posto e fu felice di non riscontrare nulla di anomalo.<br />Sputò ancora, e la tinta della saliva divenne di un rosso più deciso.<br />Probabilmente c’era qualcosa di rovinato dentro, e dentro poteva essere la lingua, lo stomaco, i polmoni, la gola. La vita, insomma.<br />Entrò in bagno e fece l'incontro che aveva procrastinato da troppo tempo.<br />Era ridotto male, e lo specchio sporco rese più suggestivo il suo viso.<br />Sentì impellente lo stimolo di cacare.<br />Mentre cercava di togliere la cinta e sbottonare i pantaloni vide che in fondo al cesso, nell’acqua racchiusa dentro ad un lurido anello di calcare marrone, sguazzava un insetto.<br />Sembrava uno scarafaggio, e si dimenava con le zampette sul pelo dell’acqua, alla ricerca di un appiglio.<br />Come si avvicinava alla calcificazione sporca di merda, i movimenti di facevano più frenetici, sembrava dovercela fare, ma poi sprofondava di nuovo dentro alla piccola pozza di ceramica.<br />Ne compatì il panico per un po’, poi abbassò i pantaloni e lo sommerse con uno spruzzo di diarrea.<br />Pensò che quando l’unica alternativa alla morte fosse aggrapparsi alla merda, forse era il caso di farla finita.<br />Questa considerazione lo convinse, si pulì, nemmeno tirò lo sciacquone, prese una boccettina con alcune pastiglie, ne infilò una manciata abbondante in bocca e si distese sul letto.</div><div align="justify">Il labbro gonfio pulsava ritmicamente, e fu l’ultimo dolore che ricordò, prima di dormire.</div>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-72215770615052360692009-08-30T03:39:00.000-07:002009-08-31T14:44:21.411-07:00Se chiudo i miei begli occhietti spenti<div align="justify">"Dovrei chiederti due cose. La prima è: evitiamo di raccontare in giro questa cosa. Nel senso, renditi conto della posizione in cui mi trovo. Succederebbe un casino, tanto per me quanto per te. E noi non vogliamo casini, vero? E’ stata una cosa improvvisa, anche divertente, ma non ci sarà bisogno di darne pubblicità. Intesi? La seconda cosa che volevo chiederti è: ci vedremo ancora?”<br /><br />Attilio Buttafoco ascoltò l’eco delle sue parole dentro la stanza vuota dell’oratorio, illuminata male dal sole che passava attraverso le fessure delle serrande abbassate. Si accese una sigaretta, anche se sapeva che don Lino non tollerava si fumasse nei locali dove si faceva attività coi ragazzi.<br />Scivolò con la schiena sul muro, fino a rimanere seduto per terra, con le gambe distese.<br />Soffiò via fumo celeste dalla bocca e guardò un cartellone colorato attaccato al muro.<br />Quel cartellone lo aveva disegnato lui, era un gioco per spiegare ai bambini della comunione i diversi momenti di cui si compone una celebrazione eucaristica.<br />Attilio Buttafoco aveva tren’anni e la cinta dei pantaloni ancora aperta.<br />Un giorno suo padre, Adelmo Buttafoco, estimatore di Croce e La Pira, gli avrebbe lasciato lo studio legale, ereditato a sua volta dal padre. Una famiglia di avvocati, che si tramandava il titolo come gli occhi azzurri e i capelli corvini sempre pettinati con la riga, a sinistra.<br />Aveva cinque anni, Attilio, quando entrò per la prima volta nel piazzale protetto dell’oratorio, e adesso ne era uno degli animatori. Suonava la chitarra durante la messa delle dieci, organizzava il catechismo del giovedì e sacrificava una settimana delle proprie ferie per il campo estivo parrocchiale, di cui era responsabile.<br />Quell'estate, al campo, aveva conosciuto Lidia Forcella, che aveva sedici anni ma ne dimostrava molti di più. Ambra e dolciastra come un peccato inconfessabile, era distesa sopra i banchi della stanza, disposti a ferro di cavallo di fronte ad una lavagna divisa in due.<br />Lidia si toccò in mezzo alle gambe con due dita e sentì le mutandine bagnate.<br />Nemmeno gliele aveva tolte, s’era limitato a spostarle di lato.<br />Guardò la mano e vide i polpastrelli imbrattati di sangue marrone.</div><div align="justify">Si pulì sul vestitino leggero e strinse le ginocchia al petto.</div><div align="justify">Attilio poteva star sicuro, non avrebbe mai raccontato niente a nessuno, nemmeno a se stessa. </div>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-1845112017079741082009-07-15T23:15:00.000-07:002009-07-16T05:59:44.122-07:00Non è questo il punto.<div align="justify">Il dottor Spatafora imboccò il vialetto di casa ed attese pochi secondi, quelli necessari per lasciar aprire il cancello automatico. Dentro il suv nero Frank Sinatra cantava <em>Somethin' Stupid </em>e persisteva un odore lieve di sigarette al mentolo.<br />Sentì ticchettare sul finestrino ed il vetro oscurato discese leggero e senza rumore. Circondato dallo scuro della sera c’era un ragazzo che lo fissava con occhi grandi e tremolanti.<br /><br />“Lei è il dottor Spatafora?”<br />“Si, sono io”<br />“Ero venuto a riportarle questo”<br /><br />Il ragazzo mise le mani dentro alle tasche del piumino e tirò fuori un cartoccio pesante. Il dottor Spatafora guardò prima il cartoccio e poi il ragazzo. Aprì piano il pacchetto di carta piegato accuratamente e dentro c’era un orologio. Osservandolo meglio s’accorse che era quello della sua azienda: sul quadrante bianco c’era lo stemma rosso con la scritta “Vittorio Spatafora & Figli”. Era stata una sua idea, quella degli orologi. Ne regalava uno ad ogni lavoratore della sua azienda che andava in pensione.<br />Quell’anno ne aveva regalati molti. Dopo la cassa integrazione aveva licenziato cinquanta operai. La crisi era stata un ottimo alibi per svecchiare e ridurre l’organico<br /><br />“Ma…che significa?”<br />“Io sono Matteo Donati, il figlio di Giuseppe Donati. Mio padre lavorava per lei”<br />“Ah. E perché mi riporti l’orologio?”<br />“Non è stato un bel regalo”<br />“Ma come? Non è brutto, mi pare…”<br />“No, assolutamente. E’ pure bello. Ma non è questo il punto”<br /><br />Gli occhi del giovane erano tranquilli come la voce. </div><div align="justify">Il dottor Spatafora non riusciva a capire dove volesse andare a parare quel ragazzo. Ricacciò malamente un grumo di saliva e fastidio in gola.<br /><br />“E qual è il punto?”<br />“Mio padre ha cinquantacinque anni”<br />“Ah”<br />“A cinquantacinque anni c’è ancora troppo tempo da vivere, e mio padre non vive più. S’alza la mattina e rimane in pigiama fino all’una. Non vuole andare a fare la spesa, perchè nel quartiere tutti s’accorgerebbero che non sta lavorando. Si vergogna, capisce? E allora rimane lì, di fronte alla televisione e sospira. Mica parla. Sta zitto, non dice niente perché non ha niente da raccontare. Vabbè, questo per dire che un orologio è un regalo sbagliato. Mio padre non incontra nessuno, quindi a nessuno può far vedere quanto è bello. Ma soprattutto segna il tempo, per lui solo tempo vuoto. A mio padre tutto questo tempo inutile lo sta uccidendo. La scatoletta non l’ho trovata, mi dispiace, ma forse mamma deve averla buttata via. Buonasera, dottor Spatafora”<br /><br />Il ragazzo smise di parlare e salì sulla bicicletta. </div><div align="justify">Il dottor Spatafora vide la luce debole della dinamo che si faceva spazio nel buio, e poi più niente.</div>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-11204854501024415192009-07-08T01:10:00.000-07:002020-06-27T03:01:34.460-07:0004.07.09<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
<div align="justify">
- Pronto?<br />
- Pronto.<br />
- Che è successo?<br />
- Niente…che deve essere successo…?<br />
- E allora? Perché m’hai chiamato?<br />
- Stasera sto di pattuglia a Capannelle. E’ un concerto rock, un gruppo che si chiama Marlene e poi il cognome c’ha qualcosa di tedesco…tipo il cantante è magrissimo, si muove a scatti, come un matto… sudato, è completamente sudato, suda pure dai capelli, e suona la chitarra, gli altri son più tranquilli. Vabbé, niente, ad un certo punto fanno una canzone col violino, una canzone lenta e d’amore… il cantante magrissimo c’ha i capelli sugli occhi e canta attaccato al microfono, tutto piegato, con la chitarra rossa con le punte, e certe volte sembra che la vuole suonare male.Ti giuro. Infila le bacchette in mezzo alle corde, e fa un rumore della madonna. Poi a me ‘sta musica qui lo sai che non mi piace proprio, troppo casino. Vabbè, ad un certo punto fanno ‘sta canzone lenta. Io non lo so il titolo, ma c’è un pezzo della canzone che mi son scritto dietro al blocchetto. Mo’ te la leggo…aspetta… dice: <em>noi cerchiamo la bellezza ovunque e passiamo spesso il tempo così senza utilità quella che piace a voi</em>… M’ha fatto pensare, Nina. Da quanto tempo io e te non facciamo le cose solo per farle? Così, dico, senza utilità, senza che stiamo a pensare alle necessità della vita? Da un sacco di tempo, Nina. E’ colpa pure mia, eh….pare che la vita, adesso, si deve svolgere, come un compito, come alle medie: il mutuo, la piscina dei ragazzini, due settimane a Fregene, natale e usciamo solo l’estate per prendere il fresco ed il gelato. Quant’è che non chiacchieriamo, Nina? Quand’è che abbiamo lasciato perdere? Ho pensato a ‘ste cose…e quando ho sentito quella canzone, che non mi ricordo il titolo, mi so’ pure ricordato perché con te vivo bene anche soltanto l’utilità…<br />
<br />
<em>Questo avrebbe voluto dirle. Così aveva immaginato la risposta.<br />S’era preparato il discorso prima. Ci aveva riflettuto un po’, prima di chiamare. Non voleva incepparsi, voleva dire qualcosa che si capisse, che non richiedesse una spiegazione. Si sarebbe emozionato e un po’ si vergognava. Qualche frase che gli era venuta bene l’aveva pure scritta sul taccuino. Tipo l’ultima.<br />Ma non s’aspettava quella domanda della moglie, alla fine.<br />Il carabiniere non riuscì a dire nulla, rimase in silenzio.</em><br />
- Ma che sei morto? Allora? Perché m’hai chiamato?<br />
- Così, niente. Che fai?<br />
- Ho messo a letto i ragazzini. Quando torni non fare casino, ché sennò non prendo più sonno.<br />
- Vabbè. Buonanotte, allora.<br />
- Buonanotte.</div>
</div>
Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-4612238567339375082009-07-04T01:40:00.000-07:002009-07-04T04:38:57.723-07:00In fondo, con l'amore<div align="justify">“<em>No è che sto andando a Torino da mio fratello dobbiamo fare una cosa con l’assicurazione della macchina io ho diciotto anni mi sono comprato una golf usata mio fratello mi ha detto che ha trovato un assicuratore che non mi fa pagare tanto abito a Massa con la mia ragazza a casa insieme ai suoi l’ho conosciuta a scuola-guida ci guardavamo e sorridevamo poi ci siamo parlati ci sto bene insieme mio padre è sulla sedia a rotelle guidava i camion e adesso è depresso l’assistente sociale ha detto che dovevo andare in casa-famiglia ma quando il padre della mia ragazza una volta m’ha accompagnato in casa-famiglia ha detto tu qui non ci puoi più stare e nel giro d’un mese ha svolto tutte le pratiche e adesso abito con loro lavoro in una pizzeria che il capo m’ha detto senti Maicol se qui ti fai il culo guadagni ed io mi faccio il culo così ho i miei soldini un po’ ne do a casa per contribuire alle spese perché i suoi genitori sono stati così gentili la madre della mia fidanzata mi lava anche i vestiti e li stira mi sembra giusto contribuire io vorrei solo lavorare così posso comprarmi una macchina nuova e posso portare la mia fidanzata in liguria a mangiare il pesce chissà se posso farlo sai con il lavoro da pizzaiolo non lo so ma io so soltanto che sono stato fortunato in fondo con l’amore</em>”<br /><br />Ascoltavo Maicol che compendiava la sua vita dentro intense e nervose boccate di sigaretta, col piede appoggiato agli scalini in ferro del treno. Aveva gli occhi neri e grandi, parlava veloce con un’inflessione ligure e toscana, sbrodolata sulle erre da una rotazione liquida. </div><div align="justify">Fumavamo svelti, nel tempo breve di una sosta per far salire le persone.<br />Lo immaginavo mentre faceva le pizze, mentre tornava a casa e la mamma della fidanzata gli stirava i calzini. Avevo dormito poco, e Maicol mi stava ricordando che l’amore, alla fine, segue segmenti obliqui ma semplici e per lui era arrivato in un sorriso, a scuolaguida.<br />Le scogliere delle Cinque Terre spiovevano roccia e primavera al di là del vetro, ed il sole alto bruciava il pensiero di quanto io fossi invece piuttosto bravo a complicare la bellezza.</div><div align="justify">A Torino lo salutai, sperando con tutto il cuore che l’assicurazione costasse poco. </div>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-28489601454529393802009-06-30T03:50:00.000-07:002019-01-18T22:18:30.846-08:00Anniversario<div dir="ltr" style="text-align: left;" trbidi="on">
<div align="justify">
Camminava lento, col passo di chi sa camminare.<br />
L’asino che lo seguiva sembrava rassegnato alla vita sempre uguale, fatta delle stesse ceste, della stessa strada, dello stesso cibo e della stessa sera, racchiusa dentro la stessa cornice viola e rosso di tramonti inquinati.<br />
Tutti i giorni, arrivato in cima al cocuzzolo della collina, lì dove il sentiero caracollava in curve larghe per addolcirne il pendio, si fermava a guardare l’orizzonte delle montagne basse, spezzato dai tralicci della luce, e l’amaro per i colori scomparsi di una volta gli faceva increspare i lati degli occhi, che diventavano cretti marroni e profondi.<br />
Ad un certo punto abbracciò l’asino e sembrava gli stesse sussurrando qualcosa.<br />
Era stanco, Ermete.<br />
Si concesse un grumo di rabarbaro e nodi mai sciolti, e si rese conto che la cucina, l’orto, la vigna, il tramonto, erano tutti a metà.<br />
L’altro pezzo se l’era portato via la moglie - dopo averlo piegato come faceva con le tovaglie - durante un pomeriggio d’estate bollente, dentro un infarto discreto e poco scenografico.<br />
S’erano incontrati e mai conosciuti, nonostante i cinquantacinque anni passati a riposare sopra le stesse molle del letto. La pragmatica contadina deprecava lo sperpero di parole non strumentali alle stringenti necessità quotidiane, che cominciavano alle cinque di mattina e finivano col soffio sulla fiamma del lume a petrolio.<br />
Ma quella mattina, uscendo di casa, s’accorse di non avere un calendario e la cucina era enorme e senza odore, e lui aveva lasciato gli attrezzi per la solitudine dietro al capanno.<br />
Era stanco, Ermete, ed il padreterno aveva cambiato la gelatina alle luci, mettendo quella cobalto che si chiazzava, minuto dopo minuto, di finestre immobili e luminose.<br />
Immaginò che ad una di esse fosse affacciata sua moglie.<br />
Poi scacciò il pensiero, perché quella sera non poteva proprio permetterselo.</div>
</div>
Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-649639527271805792009-06-25T08:37:00.000-07:002009-06-25T08:49:15.631-07:00De Rerum Natura<div align="justify">Arrivarono al pontile, e il sole basso le dipinse d’ambra metà del viso.<br />Per tutto il tragitto aveva provato a non guardarla, per non impantanarsi, fino alla gola, nel guado delle sue ciglia. </div><div align="justify">Finì che la osservava a scampoli.<br />Le mani arrivarono al contatto, ed entrambi furono attraversati un brivido piacevole.<br />Sapevano che sarebbe successo qualcosa, meglio, volevano che succedesse qualcosa, ma in maniera naturale, godendo ogni semplice combinazione, che sembrava la ricorrenza di un destino ineluttabile.<br />La stanchezza di lui era colata in fondo alla camicia, che usciva fuori, libera dai pantaloni. I capelli lunghi e la postura ciondolante gli attribuivano un’aura piuttosto buffa.<br />Lei, sorretta da un fiore bianco, sorrideva in silenzio contemplando i propri passi, e sembrava immersa dentro un dialogo pieno di assonanze e futuribili periodi ipotetici, sospesa tra l’ultima luce e il fiume, che cominciava a risalire le nuvole in spire di vapore leggero.<br />Quando le dita finalmente s’intrecciarono, lo guardò negli occhi, e i suoi s’accesero come le lucciole che escono dai tronchi cavi.<br />Non disse nulla, le baciò piano le labbra e la sua bocca si saziò, per la prima volta, di fragole, ortica e zenzero. </div><div align="justify">Il fiume li sorprese a scorrere, lui ciondolante, lei bellissima.<br />E mentre andavano verso casa i germani reali pulivano le piume.</div>Unknownnoreply@blogger.comtag:blogger.com,1999:blog-365175314414980718.post-79654184042299876752009-06-21T05:17:00.000-07:002009-06-21T23:32:32.564-07:00Luglio<div align="justify">La porta a vetri della scuola rifletteva il sole fisso ed implacabile di luglio sugli occhi stretti, accalcati di fronte ai risultati dell’esame di terza media. </div><div align="justify">Michele aspettò che la prima ondata di ragazzi scorresse, con le dita ansiose, il responso della commissione. </div><div align="justify">Poi si avvicinò.<br />Michele Mustara:<em> ottimo</em><br />Scese gli scalini ed entrò in macchina.<br /></div><div align="justify">- Allora?<br />- Tutto bene.<br />- Tutto bene quanto?<br />- Il massimo.<br />- Bravo.<br /></div><div align="justify">Michele non disse nulla. Sistemò gli occhiali ed allacciò la cintura.<br />Il volontario della casa-famiglia si accese una sigaretta, che riempì di volute celesti la macchina. La temperatura era insopportabile.<br /></div><div align="justify">- Vuoi passare da tua mamma?<br />- Si, grazie.<br /></div><div align="justify">L’infermiera moldava aprì e non sorrise.<br />Michele venne assalito dall’odore untuoso di brodo di carne. </div><div align="justify">Con questo caldo, pensò.<br />La madre sudava sopra un letto speciale, un letto rinforzato, che potesse sostenere centoventichili di schizofrenia sedata. La serranda della finestra era abbassata e si sentiva soltanto il ronzare del ventilatore sul comò, che si muoveva a destra e sinistra. Era sdraiata su un fianco, con una vestaglia leggera e celeste, con le bretelle. Con una mano sosteneva la testa spettinata. Michele prese una sedia e si mise davanti alla madre, ad un metro di distanza.<br /></div><div align="justify">- Ciao mamma<br />- Ciao amoremio!<br />- Sono stato promosso<br />- Anche io, amoremio, lo sai?<br />- Bene, sono contento. Tutti e due promossi.<br />- E adesso che fai?<br />- Vorrei fare il liceo classico.<br />- Che bello! Il classico è una scuola importante.<br />- Lo so, mamma.<br />- Me la prendi una sigaretta, amoremio? Nel cassetto del comò. Io non ci arrivo.<br />- Ti fanno male le sigarette, mamma.<br />- Una sola, dài…<br />- Non posso, mamma.<br /></div><div align="justify">La donna, con un movimento sgraziato e pesante, si girò dall’altra parte del letto. Sbuffò. Michele sentì lamentare le meccaniche in ferro del letto. S'accorse solo allora che la madre aveva una schiena enorme, bianca e piena di nei, che si intravedevano dalle trasparenze della vestaglia.<br /></div><div align="justify">- Dopo il liceo vorrei fare medicina.<br />- Me la prendi una sigaretta?<br />- Mamma...<br />- Io ora dormo un po’.<br /></div><div align="justify">Michele uscì col timore di puzzare di brodo di carne. </div><div align="justify">Il sole gli accecò gli occhi, e dovette schermarsi con una mano per vedere dove fosse parcheggiata la macchina.<br /></div><div align="justify">- Che ha detto tua mamma?<br />- Era contentissima.</div><div align="justify">- Andiamo a casa?<br />- Si.</div>Unknownnoreply@blogger.com