-Guarda lo schermo
-Perché?
-Adesso vedrai i cartoni animati
-Davvero?
-Sicuro.

La carta distesa sul lettino irritava la pancia, perché si era arricciata e faceva una piega storta.
Ero costretto in posizione prona, in mutande, e di fronte avevo un monitor pesante e beige. Non so se fosse effettivamente pesante, ma beige era sicuro, il colore del materiale utilizzato per costruire apparecchi medicali agli inizi degli anni ’80, un colore così austero e rigido.
Accanto al monitor due cartelle cliniche ed un Mars, nella sua confezione nera con la scritta rossa, contornata di giallo. Era buono e s'appiccicava ai denti. Mio padre me ne comprava uno ogni volta che avevo la febbre alta e doveva farmi l’iniezione di penicillina, perché avevo paura del dolore, acuto e diffuso, che prendeva tutta la zona lombare.
Il Mars era per me l’equivalente dei croccantini che si danno ai cani quando riportano il bastone. Una ricompensa.
Quando sentii la mano ferma dell’infermiere che mi bloccava la gamba sinistra, la paura mi riscaldò il corpo e la carta sul lettino s'inzuppò di sudore freddo. Avevo quattro anni.
Mi girai verso mia madre che si torturava le mani e tratteneva lo sgomento dentro agli occhi, con la sola volontà delle palpebre. Cercava di sorridere, come per dire tranquillo, va tutto bene, ma la bocca era diventata una striscia pallida e stretta, come il suo viso.
Poi passarono cotone idrofilo sul polpaccio, e quello fu il momento peggiore: il breve lasso di tempo tra la pelle bagnata dal disinfettante e l’ingresso di qualcosa nella carne.
Per tutto il tempo durante il quale il medico rigirò l’ago attraverso il polpaccio sinistro, per testarne l’attività neurologica, guardai il tavolo con gli occhi satinati da lacrime involontarie, perché il monitor non trasmetteva nessun cartone animato, solo piccoli numeri e strisce confuse a tre colori.
Gli stessi del Mars.

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