Le mie braccia puoi prenderle, perché te le sei già prese quando hai passato in rassegna le cicatrici chiuse male, ed io ho lasciato che coi polpastrelli scoperchiassi tutto il terrore che custodivano, per vederti liquidarlo nella banalità di una compassione che non meritavo affatto. Tieniti le orecchie, che risuonano delle tue promesse, quelle promesse con cui hai foderato le pareti del mio ipotalamo, lasciandomi da sola a staccarne i pezzetti, perchè l'umidità delle tue scuse ne aveva arricciato gli angoli. E noi passavamo la notte a togliere la polvere da parole sussurrate in toni minori. Ricordi? usavamo stracci imbevuti di premura e vodka, e avevamo giurato che quelle parole non avrebbero più fatto irrigidire i nostri nervi fasciati dentro l’autunno delle trame del mio cappotto. Prenditi le gambe, splancate e fredde e raccolte in mezzo alle tue, come quando dormivamo sulla parte bagnata del letto. Riscaldale alla luce della lampada rossa che accendevi per poiettarci sopra l’ombra delle tue voglie, che alla fine non riconoscevo diversa da quella dei tuoi deliri. Ti lascio anche gli occhi, nascosti dentro alle rughe dove scolava la dose di quotidiana pietà a cui m’hai abituata. Ti regalo il suono delle mie parole: erano autentiche e mi pareva s’incastrassero con le tue, invece tu ne avevi pronte all’uso, dentro buste di romanticismo a saldi, ma era buio e non vedevo i tuoi denti mentre aprivano la confezione. La mia bocca puoi anche buttarla, così come la lingua, perché a leccare le ferite degli altri finisce che ci si infetta.
Lasciami solo le unghie, perché sanno ricrescere, e potrò morderle quando la tua assenza mi svuoterà lo stomaco e curarle di nuovo e renderle belle, per conficcarle ancora dentro schiene che sapranno meritarle

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