La ciocca bruna scese sulla faccia ed assunse i colori del rosso. Michele la guardò e pensò che era una delle cose che lo avevano innamorato: quella ciocca cadeva sempre quando doveva e se succedeva c’era di mezzo un impulso forte, viscerale e si finiva sempre, comunque, accaldati. Anche in quel momento avvampò. S’era innamorato dei suoi dettagli, della sua bellezza imperfetta, leggera e lineare che scorreva sul naso piccolo e le labbra rosa, arricciate ogni volta che si trovava davanti ad uno specchio. Oppure gli occhi, che dilatavano lo sguardo ad oriente: lei lo sapeva, stendeva kajal e le voglie scorrevano oltre la traiettoria del profilo. Continuò a guardarla mentre lei riconosceva per la prima volta un imbarazzo inconsueto. Perché già imbarazzo c’era stato, ma all’inizio, quando i nervi sono contratti dall’emozione ed il movimento è maldestro di impazienza e voglia. La prima cosa che avvertì fu l’estraneità dell’odore, in quella camera che era così familiare nelle luci basse, gli incensi e il disordine pensato. Gli sembrò, d’improvviso, che le sue cose fossero disposte male. Ma era soltanto il disgusto d’essersi accorto che da ora in poi ci sarebbe stato un altro odore, altri libri sopra il comodino ed altre scarpe abbandonate in fondo al letto. Michele lo immaginò mentre le sollevava frenetico la gonna prima di scoparla sulle stesse lenzuola sopra cui anch’egli aveva sudato. Sicuramente aveva usato il suo sapone e non volle guardare oltre lo scroscio della doccia. Quindi rimase piantato lì, senza dire niente, con lo stupore che gli schiudeva le labbra e lo sgomento che batteva in gola, mentre lei si nascondeva dietro la sua ciocca e dentro le lenzuola. I secondi di immobilità servirono a rielaborare in fretta che il suo amore non finiva in quel momento, ma sarebbe dovuto scolare dentro lacrime irregolari e sperò in uno squarcio poco doloroso, come quando si fa uscire una scheggia di legno dai polpastrelli. Poi sentì il calore diffuso di chi deve prendere decisioni che hanno a che fare con l’orgoglio. Uscì di casa trattenendo in mezzo ai denti il rumore violento di cose fracassate, mentre tutto si scioglieva dentro la banalità di un copione degno del peggiore dei romanzi d’appendice

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