Quando seppe che dovevo toglierlo mi rassicurò sbrigativa, come di prammatica. Preparò tutto, mi disse dove sarei dovuto andare - anzi saremmo dovuti andare - per risolvere la situazione. Mi diede un orario che tenesse conto dell'eventuale traffico, mi aspettò mentre guardava Corradino Mineo che faceva la rassegna stampa. Di fronte al medico lasciò che parlassi io, per non attentare al ruolo che, cinque mesi prima, s'era trasformato da quello di figlio minore a quello di uomo di casa. Il mio status era cambiato per meriti sul campo: le ero stato accanto nel momento in cui la malattia, - quella di suo marito, mio padre - ci aveva restituito giorni tortuosi di scoramenti, occhi bassi, tenerezze inconsuete, sorrisi e lacrime annunciate. Lasciò quindi che mi dirigessi senza di lei in sala operatoria, mentre si stava torturando le mani operose secche di tramontana, seduta in punta a una sedia in formica celeste, pensando che suo figlio era lì, da solo, in mezzo a odore di disinfettante che fa svenire, e doveva togliersi un neo. Mi rivide tornare dopo mezzora, senza troppo bianco in faccia, sulle mie gambe, senza alcuna infermiera che mi aiutasse a camminare dritto. Mi chiese come stavo per tre volte, il mio -bene non le diede soddisfazione, per forza dovevo accusare qualche malessere, anche una nausea piccola. Quando gli dissi che avevo solo fame, mi mise davanti due brioches alla crema e un tramezzino. Ma la cosa che le diede vera gioia fu la prescrizione del chirurgo di spalmare, ogni sera, una crema sulla spalla, dove mi avevano asportato il neo. Per quindici giorni. Per quindici giorni l'ho vista staccarmi cerotti con premura, esagerare con la crema, e registrare i miglioramenti estetici.
E' sempre stata così, per me, per tutti. E' sempre stata un unguento da spalmare sulle ferite.

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